A cura di ANTONIO CAIAZZA
Poeta e storico dell'Arte
Si resta stupiti a vedere una produzione pittorica così abbondante e poliedrica come quella del maestro Salvatore De Angelis, il quale fin da ragazzo (da quando cioè era apprendista e carpì i segreti del mestiere di decoratore al suo maestro) ha fatto dell'arte del dipingere la ragione della propria vita. La molla della sua instancabile, se non frenetica, attività non è il successo, l'affermazione del suo nome (lo si capisce se si conosce la modestia con cui propone i suoi manufatti artistici), non la fama, quanto invece il desiderio, accompagnato da una calma profonda, di chi è consapevole di poter placare quell'ardente passione che lo invade solo travasando con colori, pennelli, spatole sulla tela, sulla tavola, sul compensato le immagini che si presentano alla sua fantasia. E questo suo fare, ricercare, immaginare, rappresentare mi ricorda la voglia, la tensione genuina che animavano i pittori della scuola napoletana di Posillipo (che scuola non era), in particolare Giacinto Gigante (di cui noto una citazione allusiva in Paesaggio napoletano ottocentesco del 2000) e più di tutti Anton Pitloo, i quali disegnavano e dipingevano con ogni mezzo su un cartoncino, un foglio di carta, una tavoletta, una tela.
Salvatore De Angelis e tutti quelli che non hanno frequentato una scuola d'arte o un'Accademia sentono il bisogno di non improvvisare, ma di seguire la lezione dei grandi autori del passato, riconoscono che la tradizione non è cosa da buttare alle ortiche, non hanno l'ardire della ribellione alle regole (come tanti discepoli delle Accademie, che spesso diventano accesi antitradizionalisti, perché sanno che per affermarsi non possono e non devono seguire vie già percorse), ma ricercano, copiano, assimilano, imparano e conquistano da sé le tecniche usate per munirsi di strumenti creativi validi. Passano pertanto per una via personale di apprendistato, diciamo pure di imitazione dei modelli perfetti dell'arte, da Raffaello, Leonardo, Vasari a Caravaggio, per giungere gradualmente e consapevolmente ad acquisire abilità e capacità di esprimere ciò che di ingenuo, cioè nobile e genuino, hanno dentro di loro. E in questo sono anch'essi figli ed espressione dei loro e dei nostri tempi.
Questa fase propedeutica nei veri artisti non finisce mai completamente, perché conduce con il perfezionamento e la maturità compositiva a opere di grande livello espressivo, mentre l'artista va conquistando i suoi campi di espressione artistica ed esprime valori e tematiche che gli sono congeniali in questo confronto con il passato, che diventa osmosi feconda di stili in nuove sintesi sempre originali.
A una prima lettura globale della produzione del maestro De Angelis si evidenzia subito e spontaneamente il tema della natura e del paesaggio, e all'interno di esso si individuano diversi filoni che si svolgono lungo il corso degli anni.
Dopo varie esperienze, che tralascio di citare perché già altri ne hanno scritto, il maestro De Angelis negli anni Settanta e agli inizi del decennio successivo dipinge sette Paesaggi impressionisti (il termine serve a indicare le impressioni che la natura suscitava nel suo animo quando, recandosi nel Vallo di Diano e in alcuni luoghi viciniori, osservava questi paesaggi alquanto diversi dall'agro sarnese. Sono dipinti a olio su tela di media dimensione, nei quali si nota una tecnica già raffinata per l'uso dei colori e la rappresentazione degli spazi; più che impressionisti, nel senso storico-artistico del termine, sono post-impressionisti, perché l'artista non usa le lineette, e poi costruisce il paesaggio, più che decomporlo, con un uso cezanniano di masse di colori distesi che in alcuni casi si avvicinano a forme geometriche cubiste. E' già sorprendente l'amore per gli sfondi sapientemente degradanti e sfumanti, per la luce che investe gli oggetti e li costruisce.
Noto poi un Paesaggio con Vesuvio del 1981, che manifesta sicuramente il primitivo e più antico interesse del maestro per il territorio dell'Agro sarnese, che qui è visto di scorcio dalla collina del Saretto, nel punto dove insisteva la Chiesa di San Martino (ora diruta). Il maestro fìssa la sua attenzione sulla campagna, la vita dei campi, le residenze dei contadini (tra i quali ha vissuto parte della sua fanciullezza) con Casa rurale (di Striano, olio su tela, cm 18x24, 1984), ripresa nel 2005 con Il casale di Striano (acrilico acquerellato, cm 60x70): né il primo né l'ultimo hanno un carattere realistico, perché l'uso dei colori, la loro distensione, le campiture, le sfumature, seppure differenti, tendono a un'astrazione simbolica di una materialità che si rende impalpabile.
Già nel 1983 De Angelis aveva mostrato questa tendenza all'astrazione quasi metafisica con Striano in un'altra dimensione (olio su tela, cm 60x80), dove raggiunge effetti a dir poco straordinari per il concepimento dei contenuti e certi effetti strabilianti di colori e spazi, m un'atmosfera notturna sullo sfondo, davanti a un ciclo cupo, ma non privo di qualche stella, si individuano un piccolo agglomerato di case rurali sulla destra e sulla sinistra la chiesa con il cimitero. La luce lunare che vi arriva da sinistra fa riflettere il paesaggio nell'acqua del fiume antistante, che assume sfumature di colori che vanno da un rosa chiaro a un rosso sangue. E qui sulla sinistra in primo piano un albero contorto come con spire di serpente (elemento ricorrente in altre opere come un logo) affonda le radici, come a significare che la vita rurale è dura e spietata, ma genera i bei frutti che campeggiano nella parte anteriore del paesaggio.
Certo non può mancare in questo ambito la rappresentazione della propria terra: il maestro ha dipinto, non solo negli anni Settanta, decine di paesaggi di dimensioni ridotte (che non è giusto definire miniature), ma che possiedono la profondità, l'energia e la vitalità espressiva di grandi opere (ricordiamo che la famosa Rotonda Palmieri di G. Fattori è di cm 12x35), sicché non possono essere considerate propedeutiche alle opere successive di più vaste dimensioni. Si può affermare anzi che quei paesaggi possiedono una valenza cromatica di sintesi che è di notevole livello artistico. Il tema del paesaggio sarnese è una costante di tutti i pittori sarnesi (e non solo), perché alcuni angoli storici sono davvero evocativi e suggestivi, per non parlare della vegetazione, dell'acqua (che ricorre poco nel Nostro) e delle fabbriche tessili, in cui si identifica la storia recente dell'Agro.
A tal proposito mi piace incominciare da un'opera che ritengo un autentico capolavoro, cioè Campagna e colline sarnesi (olio su tela, cm 120x60, del 1995), che rappresenta in campo lunghissimo il panorama dell'agro, il paesaggio urbano pedemontano e le colline sullo sfondo. Il particolarismo descrittivo, minuzioso, perfetto, degno di un grande artista, non rinvia al naturalismo, ma alla metafisica: è un paesaggio che sa di rêverie più che vissuto nella sua banale realtà e quotidianità.
Ma già prima il maestro aveva dipinto Luci mattutine (acrilico su tela, 1991) e Via Matteotti con la torre dell'Orso (acrilico acquerellato, 1992), in cui dominano luci diffuse con predominanza del rosa. Anche Panorama con le vecchie Filande (olio su tela, cm 150x100), contemporaneo di Campagna e colline sarnesi è una summa della Sarno storica (vi è rappresentata la D'Andrea come era prima della ristrutturazione degli anni Ottanta). Anche qui il particolarismo descrittivo tende a dare l'idea di un mondo fissato in un attimo dell'andar del tempo; anche qui il rosa tende a creare una tenue atmosfera rasserenatrice, come a rendere assoluto il ricordo di tante fatiche ivi spese.
Che dire della ripresa di questi paesaggi negli anni più vicini ai nostri giorni? Il Cortile di Vicolo S. Michele (acquerello acrilico, 2004), II Bottaccio (olio su tela, cm 70x50, 2005), ora cancellato dalla costruzione dell'acquedotto a Foce, Palazzo Napoli con Terravecchia (olio su tela, cm 50x70, 2005), S. Matteo (acrilico acquerellato, cm 50x70, 2006) rappresentano un periodo aureo della produzione: la capacità compositiva delle masse, le prospettive, ma soprattutto la resa cromatica, l'amore della rappresentazione dei cicli con la vitalità dei suoi cangianti colori, riprendono l'esperienza precedente e acquisiscono una nuova tecnica, più elaborata dove, come nelle contemporanee opere che trattano altri soggetti, i colori primari e secondari sono usati con pennellate non più distese o parzialmente campite, ma sono esplosioni policrome che creano, nel ricadere sulla tela, oggetti viventi, particolari di muri, case, alberi, parti di ciclo. Le masse in tal modo si liberano del peso, sembrano diventare forme fluttuanti e impalpabili. Ultimo prodotto paesaggistico, che riprende e amplia prospetticamente il citato Palazzo Napoli con Terravecchia, è un altro Luci mattutine (olio su tavola, cm 140x52, 2007), dove è rappresentato lo scorcio di Terravecchia con in basso il Palazzo Napoli e parte di Via De Liguori: la luce del sole sorgente che discende dall'alto a destra provoca una prevalenza di varie tonalità di rosso-rosa-bianco, intervallato e racchiuso da masse verdeggianti: il ciclo stesso, rosa con bianche nuvolette, è parte vivente della natura.
Un secondo campo in cui il maestro De Angelis si cimenta continuamente è la rivisitazione, più che riproduzione, di opere di maestri antichi, sia di arte sacra sia di arte profana. Dagli anni Settanta in poi si va dalla Gioconda (olio su tela, cm 60x80, 1979) di Leonardo alla Cena in Emmaus (olio su tela, cm 100x70, 2004) di Caravaggio, dove riesce a rendere l'espressione dei volti, la prospettiva e il cromatismo degli originali. Non ultimo ha esposto la meravigliosa Vendita di una schiava (olio su tela, cm 60x120, 2004) nella quale, per non parlare dell'espressione ammiccante del volto del mercante, l'incarnato della schiava nuda rinvia alla maestria di un Ingres. Ma al di là della fede che lo ispira per la composizione delle rappresentazioni sacre, a noi piace rilevare la rivisitazione del Bacco di Caravaggio nel suo Salvatore Junior nelle vesti di Bacco (olio su tela, cm 60x80, 2006) dove il maestro cede a un puro divertissement, questa volta ironico e sornione, non dissacratorio alla maniera dei dadaisti. Gode nel ritrarre il suo omonimo nipote Salvatore nelle vesti di uno dei personaggi più famosi e più discussi della storia dell'arte: è superfluo sottolineare la bravura e la periziai tecnica nel riprodurre i riflessi caravaggeschi di luci nella natura morta, e in particolare nell'ampolla d'acqua.
Proprio la natura morta è un altro universo di ricerca che gli è molto congeniale. Anche in questo percorso si può notare la stessa evoluzione stilistica che si registra nella rappresentazione del paesaggio. La natura morta Peperoni e melanzane del 1980 (olio su tela, cm 60x50), come anche quella del 1984, è dipinta con la stessa tecnica costruttiva a macchie dei paesaggi. Subito, dopo si avverte però una tendenza all'astrazione con un'opera singolare dal titolo Nespole, albicocche e fichi (olio su tela, cm 70x50,1984), la quale rappresenta della frutta (nespole con foglie, albicocche e fichi) su un piano immaginario, dove tuttavia la luce provoca ancora zone d'ombra e un contrasto luminoso di fondo tra il giallo e il verde. Questa tendenza si accentua nelle altre opere, come Anguria e meloni del 1999, un olio su tela (cm 100x70), nella quale la frutta, la caraffa, la bianca tovaglia assumono una nettezza di forme e un candore metafisici nei colori placidamente distesi. Altre tre Nature morte (in acrilico) del 2005 costituiscono, a mio giudizio, il punto più alto in questo ambito tematico, che si caratterizza per l'impiego dei colori a macchie esplosive, dove gli oggetti diventano leggeri nella loro essenzialità per la singolare mélange degli oggetti e delle tonalità cromatiche.
In questo ambito dobbiamo includere due autentici capolavori: come già scrivemmo a proposito della Natura morta del 2005, questo soggetto è il campo in cui ogni artista si confronta con gli altri e con se stesso ed esprime la sua originalità.
Un Fiori con fichi del 1992 (in acrilico, cm 70x100) e un Fiori con ciliegie del 2005 (in acrilico, cm 50x70) ci danno il chiaro segno dell'ispirazione lirica del pittore, della sua sensibilità, della sua elegante semplicità e profondità: l'assolutezza delle forme e dei colori si trasfonde attraverso una raffinatissima tecnica (vedi, ad esempio, i riflessi dei gambi nei fiori nel vaso) in una metafìsica a-spazialità e a- temporalità.
Questa cursoria rassegna sarebbe incompleta se ci fermassimo qui, perché c'è un altro ambito tematico che per chi scrive è stato il più imprevisto, e pertanto il più sorprendente e gradito. Chi conosce il carattere bonario, mite e pacifico del maestro Salvatore difficilmente immagina una tensione anche civile e sociale così forte, che l'ha spinto nell'intero corso della vita a prodiere opere di intenso contenuto anche in questo campo.
Tre opere del 1978 dal titolo Il gioco è finito (olio su tela, cm 70x50), Verso l’epilogo (olio su tela, cm 70x50) e Potere e povertà (olio su tela, cm 70x50) testimoniano una presa di coscienza dell'artista sui problemi che attanagliavano la società di allora (e di oggi): è presente, quasi come un logo, l'albero contorto, spesso trasudante sangue, simbolo della società tormentata e violenta; c'è da un lato una mano trafitta da un chiodo, un'altra tesa a chiedere aiuto, di contro altre due stringono tenacemente il danaro (che ha il colore rosso del sangue); ci sono una conchiglia solitaria, un portalampada con fili tagliati, un metro rotto, mozziconi di sigaretta, un piatto bianco vuoto, una siringa, una bugia con candela di cera piegata su se stessa; in tutte le opere c'è una tempesta inquietante di colori sul fondo, come una deflagrazione cosmica nucleare. Sono un'aperta denunzia dei mali del secolo. In Maternità (olio su tela, cm 100x70, 1980) campeggia una madre con il volto scarno, accovacciata, e regge un bimbo scheletrico e denudato, segno dell'inquietudine con cui il mondo occidentale, ricco e opulento, vive il dramma della fame in alcune sue sacche o nel mondo sottosviluppato: le luci quasi psichedeliche trasmettono angoscia illuminando due alberi rachitici e spogli in primo piano.
Un autentico capolavoro è Mea culpa (olio su tela, cm 70x50,2005), un j'accuse possente contro la guerra e i guerrafondai: in primo piano appare una livida figura umana a metà, tronca di un braccio (evidente segno dei mali arrecati dalla guerra agli esseri umani), un carro armato mimetizzato si staglia alle sue spalle, simbolo della potenza bellica devastante, a destra campeggia l'albero contorto, rosso come sangue in basso e con chiare luminescenze di bagliori in alto. Sullo sfondo piccole ombre di guerrieri si agitano con armi e bandiere sulle creste delle alture in controluce su una fascia di luce bianca, in alto a sinistra emergono come spettri da un ciclo di un intenso azzurro i volti arcigni di due antichi dittatori guerrafondai, mentre al centro si verifica una deflagrazione dalle tinte rosse e gialle. Tuttavia in tanta desolazione si leva a volo sul fondo cupo una bianca colomba, simbolo di un'imperitura speranza di pace per il mondo. Per il quale il nostro maestro nutre un profondo desiderio di palingenesi.
Infatti nella tela a olio Il riscatto dell'umanità (cm 50x60) alla maniera di Dalì un Cristo crocifisso è visto in prospettiva di fronte e dall'alto, con il piede della croce quasi piantato sul palazzo municipale di Sarno. Si nota facilmente che il paesaggio sottostante è costituito in primo piano dalla parte centrale dell'agglomerato urbano di Sarno (vista dalla Chiesa della Madonna del Carmine) e si dilunga verso il fondo con le squadrature della campagna: il costruttivismo cubista con colori di tonalità sfumate, tinte neutre, comunica la ricerca di una pace ulteriore. Questo stesso soggetto è ripreso nel 2007 in Crocifissione Cosmica (acrilico su tavola, cm 100x70):
il Cristo crocifisso che vediamo in basso qui ci volge le spalle perché guarda verso il cosmo, che è reso magistralmente con pianeti fluttuanti da vicino, stelle lontane, vortici di luci, zone d'ombra e masse di nebulose dalle tinte diverse. Qui si percepisce
un atto di fede (forse più salda che nelle sacre rappresentazioni) nel mistero cristiano che il Figlio di Dio muore per redimere non solo l'umanità terrestre, ma tutto il mondo, creato dal Padre: la Crocifissione è un riscatto per l'Universo intero.
Può mancare per un vero artista un autoritratto? Il maestro nell'opera Io, mio nipote Marco e Webster (olio su tela, cm 100x70, 2006) si autorappresenta insieme ai suoi affetti più cari (il nipotino Marco e il barboncino) in un cortile domestico con due panne in vasi di terracotta e un'altra pianticella; si ritrae in forma dimessa, in canottiera, pantaloncini e sandali, accovacciato nella sua semplicità e umiltà quasi all'altezza del nipote. Al sorriso ingenuo di Marco fa da pendant il sorriso sornione e leggermente ironico del nonno. Questa è la sua vera dimensione umana, che gli fa cogliere con acume e con rinnovato interesse il bello e il brutto del mondo che lo circonda.
Sarno, 11 luglio 2007 Antonio Caiazza